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Traci ed Etruschi nell’epica antica

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I Traci nell’epica omerica

Nell’epica omerica, la prima menzione dei Traci appare in quella enumerazione delle unità militari troiane e alleate che nel secondo libro dell’Iliade segue il catalogo delle navi achee. Mentre rimane incerto se le tribù dei Pelasgi debbano essere assegnate all’uno o all’altro schieramento, Traci, Ciconi e Peoni sono gli alleati dei Troiani provenienti dai territori balcanici.

Al contingente tracio sono riservati questi due versi: “Acamante e l’eroe Piroo guidavano i Traci, – quanti ne racchiude l’Ellesponto che scorre impetuoso” (II, 844-845). Sulla figura di Acamante Omero ritorna più avanti, allorché ne descrive la morte eroica: “Per primo Aiace Telamonio, baluardo degli Achei, –  spezzò una falange di Troiani e diede luce ai compagni, – colpendo l’uomo che era il migliore fra i Traci, – il figlio di Eussoro, Acamante forte e grande. – Per primo lo colpì, sul cimiero dell’elmo chiomato; – si piantò nella fronte, trapassò l’osso – la punta bronzea; la tenebra gli velò gli occhi” (VI, 5-11). Anche l’altro capo dei Traci, “Piroo figlio d’Imbraso, che era venuto da Eno” (IV, 520), muore eroicamente in battaglia. Dopo aver fracassato una gamba a Diore, Piroo gli conficca l’asta nel ventre, ma viene colpito a sua volta dall’etolo Toante. Questi però non riesce a spogliare il cadavere delle armi, perché i guerrieri traci glielo impediscono: “gli stavano intorno i compagni, –  i Traci dai capelli raccolti in alto, con le lunghe lance nelle mani; – essi, per quanto fosse grande e gagliardo e superbo, lo – ricacciarono lontano da loro; ed egli fu costretto a retrocedere” (IV, 532-535). Dopo la morte di Piroo e di Acamante, alla guida dei guerrieri traci subentra Reso, figlio di Eioneo. Mentre il nome di Eioneo ricorda la città di Eione, sulla foce dello Strimone, quello di Reso proviene dalla medesima radice presente nel lat. rex e nel sscr. râjâ, ma anche nell’etrusco Rhasen-, che secondo Georgiev è un probabile prestito tracio (1).

Dalla citazione contenuta nel libro II vediamo come la Tracia omerica corrisponda ad un’area non molto estesa e comunque non chiaramente determinata nell’entroterra, in particolare per quanto riguarda i confini nord-occidentali. Accanto ai Traci, abitano questo territorio i Ciconi (stanziati tra i fiumi Ebro e Nesto) e i Peoni (stanziati fra lo Strimone e l’Assio). Nella guerra di Troia, “il capo dei Ciconi armati di aste (aichmetàon) era Eufemo, – figlio di Trezeno, il Ceade alunno di Zeus. – Pirecme guidava i Peoni dagli archi ricurvi, – che venivano da lontano, da Amidone, dall’Assio che scorre ampio, – l’acqua del quale si spande bellissima su quella terra” (II, 846-850).

Nei due versi dedicati ai Ciconi si dice soltanto che costoro combattono con la lancia e che sono guidati da Eufemo, del quale vengono indicati il padre e l’avo paterno. Ma il popolo dei Ciconi ricompare nell’Odissea, nella sequenza iniziale (IX, 39-61) del lungo racconto delle avventure di Odisseo alla corte dei Feaci. Salpati da Troia, Odisseo e i suoi compagni sbarcano a Ismaro (città non lontana da Maronea, o forse da identificarsi con essa), la incendiano, rapiscono le donne e saccheggiano le molte ricchezze. Ma i Ciconi passano al contrattacco: “Frattanto, fuggendo, i Ciconi chiamavano i Ciconi – ch’eran loro vicini, più numerosi e più validi, – abitanti dell’entroterra, esperti a combattere – contro i nemici dal carro e, dove bisognasse, anche a piedi. –  E vennero, quante le foglie e i fiori spuntano a primavera, – sul far del giorno” (IX, 47-52).

Quanto ai Peoni, il libro II dell’Iliade dice qualcosa di più: 1) sono arcieri (ma in XXI, 155 sono detti dolichenchéas, “dalle lunghe lance”), 2) vengono da lontano (ma nella rassegna degli alleati telòthen è avverbio ricorrente e quindi generico), 3) la loro capitale è Amidone, sul fiume Assio, l’odierno Vardar, che attraversa la Macedonia e sbocca nel Golfo Termico. “In quel periodo l’area compresa tra le valli del Vardar e dello Struma ebbe la più alta densità di popolazione ed i suoi abitanti funsero da intermediari fra il nord e il sud nella trasmissione di idee e di oggetti” (2). Il capo dei Peoni, Pirecme, è ucciso da Patroclo (XVI, 284-292); un altro dei loro duci, Asteropeo, dice ad Achille, prima di essere ucciso: “Vengo dalla Peonia dalle fertili zolle, che si trova lontano, – guidando i guerrieri peoni dalle lunghe lance; e questa è adesso per me – l’undicesima aurora da quando son giunto ad Ilio. – La mia stirpe discende dall’Assio che scorre ampio, – l’Assio, che su quella terra manda un’acqua bellissima; – egli generò Pelegone famoso per la sua lancia; e lui, dicono, mi – generò” (XXI, 154-160). Vedendo cadere il loro capo, i cavalieri peoni fuggono lungo le rive dello Scamandro; ma Achille li incalza e ne uccide sette: Tersiloco, Midone, Astipilo, Mneso, Trasio, Enio, Ofeleste. Molti di più ne ucciderebbe, se non intervenisse a frenarlo la divinità fluviale (XXI, 205-221).

Ci sono poi altri popoli che nell’Iliade troviamo nominati assieme ai Traci come loro vicini. Fra gli alleati dei Troiani che Dolone elenca a Odisseo vi sono i “Misi superbi” (X, 430), i quali compaiono anche nel libro XIII. Mentre nei pressi delle navi achee infuria la battaglia e Poseidone osserva gli avvenimenti stando seduto “in alto, sulla più eccelsa cima della selvosa Samo – tracia (Sàmou hyleésses Threikìes)” (XIII, 12-13), dalle vette dell’Ida Zeus volge lo sguardo lontano, “guardando alla terra dei Traci allevatori di cavalli, – dei Misi che combattono corpo a corpo (antémachoi), dei nobili Ippemolghi – che si cibano di latte e degli Abii, i più giusti fra gli uomini” (XIII, 4-6). E’ stato notato che “i popoli menzionati, da localizzare tutti a Nord, oltre l’Ellesponto e la Propontide, sono caratterizzati da uno stile di vita che sembra allontanarsi dalla bellicosità verso una sorta di utopistico pacifismo” (3). Infatti, mentre più pacifici appaiono gl’Ippemolghi e gli Abii, i nomi dei quali significano rispettivamente “mungitori di cavalle” e “privi di violenza”, bellicosi sono i Misi, bravi nel combattimento ravvicinato, nonché i Traci, ai quali viene assegnato qui come altrove (cfr. XIV, 227) l’epiteto di hippopòloi, “allevatori di cavalli”, che richiama le attività della guerra.

Ma l’eccellenza dei cavalli traci è immortalata nell’episodio dei destrieri di Reso (X, 470-569). “Ho visto i suoi cavalli, bellissimi e grandissimi, – più bianchi della neve, nel correre simili ai venti – e il suo carro è ben adorno d’oro e d’argento” (X, 436-438). A questa descrizione fatta da Dolone corrispondono le parole ammirate del vecchio Nestore, colpito come gli altri Achei dall’incomparabile bellezza degli animali: “Sono terribilmente simili a raggi di sole. – Io sono sempre in mezzo ai Troiani e vi dico che mai non – rimango presso le navi, benché sia un vecchio guerriero; – ma tali cavalli non vidi né scorsi mai. – Penso che un dio, incontrandovi, ve li abbia dati” (X, 548-551).

Alla vocazione dei Traci per la guerra si connettono l’imponenza, la bellezza e il pregio delle loro armi. “Belle” (kalà) e “ricche di fregi” (poikìla) (X, 472, 504) sono le armi dei guerrieri traci arrivati a dar man forte ai Troiani (X, 471-473); quelle di Reso, in particolare, sono “armi auree, gigantesche, meraviglia a vederle – (…) non a uomini mortali si addice – portarle, ma a dèi immortali” (X, 439-441). Una spada (xìfos) tracia di grandi dimensioni è l’arma con cui l’indovino Eleno, figlio di Priamo, abbatte Deipiro (XIII, 576-577). La “spada (fàsganon) con le borchie d’argento, – bella, tracia” (XXIII, 808-809) che era appartenuta ad Asteropeo è uno dei premi che vengono messi in palio da Achille durante i giochi in onore di Patroclo.

Da una similitudine contenuta in XIII, 298-305 possiamo dedurre che l’amore dei Traci per le armi e per la guerra è dovuto al fatto che Ares è originario della loro regione. Infatti Ares “rovina dei mortali” (brotoloigòs) e suo figlio Fobos “forte ed impavido” (krateròs kaì atarbès), “che mette in fuga (efòbese) anche il guerriero più ostinato” (XIII, 300), partono dalla Tracia per portare la guerra agli abitanti di Efira o di Flegia, due città della Tessaglia in conflitto fra loro. Anche nell’Odissea, laddove termina il canto dell’aedo Demodoco sugli amori di Ares e di Afrodite, troviamo una scena che ci presenta la Tracia come patria di Ares: appena Efesto scioglie la catena con la quale ha imprigionato i due amanti, Afrodite corre subito a Cipro, mentre Ares se ne va d’un balzo in Tracia (VIII, 359-366).

Oltre ad Ares, c’è un altro dio al quale Omero sembrerebbe attribuire un rapporto con la Tracia: si tratta di Dioniso, per quanto la Tracia non sia mai evocata nei quattro luoghi omerici in cui viene nominato questo dio. Il più ampio di tali luoghi (Iliade, VI, 130-141) ricorda una teomachia punita: Licurgo, che perseguitò Dioniso e le nutrici del dio, costringendo quest’ultimo a cercare scampo nell’abbraccio di Teti, fu punito da Zeus con la cecità e con la morte prematura. Licurgo, evidentemente ben noto agli ascoltatori dell’aedo in quanto famoso guerriero, viene detto soltanto “figlio di Driante”, per cui “manca ogni notizia sulla sua qualifica, sul popolo, sul luogo” (4); tuttavia, “che Licurgo, figlio di Dryas, sia originario della Tracia è dimostrato dalla sua genealogia” (5). O forse, se volessimo esser più cauti, dovremmo dire che “la tradizione secondo la quale il nemico di Dioniso sarebbe stato un re del popolo tracio degli Edoni, nella regione del Pangeo, probabilmente trasse origine dalla fabulazione di un autore posteriore a Omero” (6): magari da Eschilo, che negli Edoni (prima parte di una perduta Licurgia) collocò esplicitamente nell’ambiente tracico la storia cantata da Omero, o da Sofocle, che nel quarto stasimo dell’Antigone (vv. 955-965) attribuisce il titolo di “re degli Edoni” (Edonôn basileùs) all’”ardente figlio di Driante”. D’altronde, sempre per ragioni di cautela, non sarebbe fuor di luogo obiettare che anche il “sacro Niseo” (egàtheon Nyséion), attraverso il quale avvenne la fuga di Dioniso, non può essere identificato in maniera univoca con il Pangeo o comunque con “una località della Tracia” (7), poiché, nonostante gli scoli dell’Iliade rimandino ad una Nisa di Tracia, furono chiamate Nisa o Niseo molte montagne associate ai misteri dionisiaci e i mitografi situarono nelle regioni più diverse (Caucaso, Arabia, Egitto, Libia) la montagna su cui Dioniso era stato allevato.

Dalla Tracia, infine, provengono altre due entità divine, i nomi delle quali significano rispettivamente “sibilante” e “tenebroso”: “due venti sconvolgono il mare pescoso, – Borea e Zefiro, e questi due soffiano dalla Tracia, – giungendo all’improvviso; e immediatamente un’onda nera – si gonfia e riversa molte alghe lungo la riva” (IX, 4-7). Da ciò si può dunque legittimamente dedurre, anche se Omero non lo dice in maniera esplicita, che si trovi in Tracia la casa di Zefiro, nella quale si trovano riuniti a banchetto tutti quanti i Venti allorché Iride reca loro il voto di Achille: l’eroe promette un bel sacrificio a Borea ed a Zefiro, qualora facciano avvampare il rogo su cui giace Patroclo. I due venti si levano “con prodigioso fragore”, sconvolgendo il mare si precipitano a Troia e per tutta la notte agitano le fiamme della pira, “soffiando sonoramente” (XXIII, 193-218).

1. Vladimir I. Georgiev, Introduzione alla storia delle lingue indeuropee, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1966, pp. 129 e 273.

2. Alexander Fol e Ivan Marazov, I Traci. Splendore e barbarie di un’antica civiltà, Newton Compton, Roma 1981, p. 124.

3. Guido Paduano, Commento, in: Omero, Iliade, Einaudi-Gallimard, Torino 1997, p. 1142.

4. G. Aurelio Privitera, Dioniso in Omero e nella poesia greca arcaica, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1970, p. 83.

5. Karl Kerényi, Dioniso. Archetipo della vita indistruttibile, Adelphi, Milano 1992, p. 172.

6. Henri Jeanmaire, Dioniso. Religione e cultura in Grecia, Einaudi, Torino 1972, p. 62.

7. Walter Friedrich Otto, Dioniso. Mito e culto, Il Melangolo, Genova 1990, p. 65.

I Traci nell’Eneide

Nell’Eneide il nome della Tracia compare (una volta sola) nella forma Thraca, preferita dai poeti (Hor., Carm. 3, 25, 11; Epist. 1, 3, 3; 16, 13; Ovid. Fast. 5, 257; Pont. 4, 5, 5) ma usata anche da Cicerone. Il passo relativo è una similitudine che vuol rendere più efficace la descrizione del furore guerriero di Turno, allorché questi incita con violenza  i cavalli a passare sui cadaveri dei nemici:  “Come quando, presso le correnti del gelido Ebro, impetuoso – l’insanguinato Marte (Mavors) percuote lo scudo e i furenti – cavalli incita, movendo guerra (quelli per l’aperta pianura – volano avanti al noto e allo zefiro, geme sotto i colpi degli zoccoli la remotissima – Tracia (ultima Thraca) e intorno i volti dell’atra Paura (Formidinis), – dell’Ira (Iraeque) e dell’Insidia (Insidiaeque), corteo del dio, si agitano) – …” (XII, 331-336). Facile notare, qui, come Virgilio riprenda il collegamento omerico della Tracia con Marte e con altre divinità guerriere, collegamento che ricorre anche nel passo in cui, per l’unica volta, l’Eneide enuncia il nome dei Traci (Thraces, con la vocale finale breve, che riproduce la quantità del corrispondente nominativo greco (1). È il passo in cui Enea rievoca l’approdo della flotta degli esuli troiani alle foci dell’Ebro: “Lontano (procul), sacra a Marte (Mavortia), è abitata una terra dalle vaste pianure – (l’arano i Traci), su cui regnò un tempo il crudele Licurgo, – ospizio antico per Troia, stanza di Penati alleati, – finché durò la fortuna” (III, 13-16).

Comune a questi due passi è il tema della lontananza della Tracia, tema che ritorna – con l’aggettivo supremus, -a, -um – nel punto in cui Clauso di Curi, progenitore della gens Claudia, atterra sei guerrieri traci del seguito di Enea: “tre Traci (Threicios) della stirpe remota di Borea (Boreae de gente suprema) – e tre che il padre Ida e la natale terra di Ismaro hanno mandati” (X, 350-351). Borea, figlio di Astreo e di Eos, che spira dalla Tracia ed è il più violento fra tutti i venti, è dunque il capostipite di un clan di quella regione. Altrove Borea è detto “edonio”  (XII, 365), con epiteto che rimanda agli Edoni, popolazione tracia stanziata lungo lo Strimone.

La lontananza della Tracia spiega, in Virgilio, quella “indifferenza per la precisione geografica” (2) che emerge laddove le Amazzoni, pur essendo “tracie” (Threiciae) (XI, 659), vengono tuttavia connesse col fiume Termodonte, che tracico non è, in quanto scorre in Cappadocia. A parte ciò, la figlia cacciatrice di Arpalico, re della popolazione tracica degli Amimnei, viene correttamente collegata col principale fiume della Tracia: “sfianca i cavalli la tracia – Arpalice (Threissa Harpalice) e nella corsa supera l’Ebro volante” (I, 316-317).

Tracio è Orfeo, del quale Virgilio ha già cantato la storia nel IV delle Georgiche. Il mitico vate, che “poté richiamare l’anima della sposa – fidando nelle corde canore della tracica cetra (Thraeicia cithara)” (VI, 119-120), ci viene presentato per primo tra tutte le anime che dimorano nei Campi Elisi: “E in lunga veste il sacerdote tracio (Thraeicius sacerdos) – modula il canto in ritmo per gl’intervalli delle sette note – ed or con le dita or con l’eburneo plettro le tocca” (VI, 645-647). L’insistere di Virgilio sulla connotazione tracica di Orfeo sembra voler contraddire quelle raffigurazioni in cui il cantore appariva con un aspetto integralmente greco.

Tracia è la ninfa Opis, la vigile ancella di Diana che vendica su Arrunte la morte di Camilla: “la tracia (Threissa) un’alata saetta dall’aurea – faretra estrasse e rabbiosa tese l’arco di corno, – traendo indietro la freccia, finché, curvati, si unirono – i due capi tra loro e con le mani in linea essa toccò – la punta di ferro con la sinistra e la mammella col nervo e con la destra” (XI, 858-862).  Una faretra simile è quella che Enea mette in palio per chi arriverà secondo nella gara della corsa a piedi: “una faretra amazzonica colma di frecce – tracie (sagittis Threiciis), circondata da un’ampia cinghia d’oro – e agganciata mediante una fibbia adorna di una splendida gemma” (V, 311-313).

Nell’immagine dei Traci come popolo bellicoso non manca il tradizionale elemento dei cavalli da guerra d’origine tracia. Un cavallo tracio (Thracius equos) pezzato di bianco è quello montato da Turno, “di cui il furor è la più intima caratteristica” (3), allorché, impaziente di incrociare le armi, l’eroe rutulo marcia verso l’accampamento dei profughi troiani (V, 49-50). Pure di razza tracia è il destriero su cui cavalca il fanciullo Priamo nel ludus Troianus: “un tracio – cavallo (Thracius ecus) pezzato di macchie bianche, che bianche sopra lo zoccolo – le zampe e bianca la fronte ostenta superbo” (V, 565-567). Qui l’aggettivo Thracius non è puramente esornativo, ma sottolinea l’origine traco-troiana del giovinetto, destinato a propagare nel Lazio la schiatta dell’avo, ultimo re di Troia (4). Funzione analoga svolge il medesimo epiteto in un altro brano del medesimo canto, quando Enea premia Aceste, vincitore nella gara del tiro alla colomba, dicendogli: “Dello stesso vegliardo Anchise tu avrai questo dono: – il cratere cesellato, che un giorno il tracio – Cisseo (Thracius Cisseus) come dono prezioso al genitore Anchise – aveva dato, perché lo portasse come memoria e pegno del suo affetto” (V, 535-538). Cisseo, re di Tracia, era il padre di Ecuba (cfr. Eurip. Hec., 3), sicché il passaggio del cratere nelle mani di Aceste intende evidenziare simbolicamente la connessione fra i Traco-Troiani e la nuova Troia che sarebbe sorta sul territorio dell’Italia.

Ma il rapporto fra l’Italia e la Tracia è molto più antico. Secondo la storia tramandata dagli Aurunci e riferita dal re Latino ai profughi troiani, Dardano, il fondatore di Troia, era giunto “alle città idee della Frigia – ed alla tracia Samo, che ora è detta Samotracia (Threiciamque Samum, quae nunc Samothracia fertur)” (VII, 207-208), partendo dall’Italia, “dalla sede tirrena di Corito” (Corythi Tyrrhena ab sede) (VII, 209). “Sede tirrena”, cioè etrusca.

1. R. D. Williams, Aeneidos liber tertius, Oxford 1962.

2. Cinzia Bearzot, voce Tracia in Enciclopedia Virgiliana, Istituto della Enciclopedia Italiana, vol. V, Roma, 1990,  p. 224.

3. Ettore Paratore, La scomparsa e il ritorno di Turno, in: AA. VV., Virgilio nel bimillenario, Herder, Roma 1985, p. 10.

4. Ettore Paratore, Commento a: Virgilio, Eneide, trad. di L. Canali, canti V-VI, vol III, Fondazione Lorenzo Valla, Mondatori, Milano 1979, p. 173.

Gli Etruschi nell’Eneide

Nell’Eneide l’aggettivo di forma greca Tyrrhenus, -a, -um e il corrispondente nome etnico Tyrrheni, -orum sono usati, rispettivamente, come sinonimi degli aggettivi di forma latina Tuscus, -a, -um e dei nomi Tusci, –orum ed Etrusci, –orum.  Tirreno (Tyrrhenus, XI, 612) è anche il nome di un guerriero etrusco alleato di Enea. Significato analogo hanno i termini Lydi, -orum, Lydius, -a, -um e Maeonidae, -arum, poiché Virgilio segue la tradizione erodotea (Herod. I, 94) secondo cui gli Etruschi sarebbero originari della Lidia, i cui abitanti si chiamavano un tempo Meoni (Herod. I, 7); e ciò risulta molto chiaramente dal riferimento alla città di Agilla (Agylla, poi Caere, l’odierna Cerveteri), “dove un tempo la lidia – gente (Lydia gens), illustre in guerra, s’insediò sui colli etruschi (iugis Etruscis)” (VIII, 478-479).

Il fatto che Dardano fosse partito dalla sede “tirrena”, cioè etrusca, di Corito (l’odierna Cortona) e che i fati abbiano indotto il discendente di Dardano a ritornare a Corito e in Italia (Corythum terrasque requirat Ausonias, III, 170) giustifica l’alleanza dei Troiani con gli Etruschi, i quali sono divenuti parte integrante dell’Italia da quando vi si sono insediati. “L’intenzione di Virgilio – scrive il Pallottino – di sottolineare la pertinenza degli Etruschi all’Italia, nonostante la loro provenienza esotica del resto immaginata molto lontana nel tempo, è comprovata in modo esplicito e implicito in diversi passi, a cominciare dalle Georgiche (2, 533), dove la crescita della fortis Etruria s’inserisce nel quadro idilliaco dei primordi dei popoli italici” (1). A proporre ad Enea l’alleanza con gli Etruschi è il re della piccola città di Pallanteo, l’arcade Evandro, il quale – vale la pena ricordarlo in questo contesto – porta ai piedi i caratteristici “calzari etruschi” (Tyrrhena vincula, VIII, 457). Tutta l’Etruria (omnis Etruria, VIII, 493) si è sollevata in armi per far giustizia dell’empio tiranno Mezenzio (contemptorque deum Mezentius, VIII, 7, cfr. VII, 648), che, scacciato dal suo regno di Agilla, ha trovato rifugio presso Turno. Gli Etruschi, ai quali un oracolo impedisce di combattere agli ordini di un duce italico, si sono rivolti ad Evandro, ma questi è troppo vecchio e suo figlio Pallante ha una madre sabina (matre Sabella, VIII, 509). Il capo straniero vaticinato dall’oracolo sarà dunque Enea, il quale avrà accanto a sé, oltre alla cavalleria arcade, tutte le forze etrusche. La colonna guidata da Enea si inoltra così nelle selve, finché giunge nei pressi di Agilla, vicino al luogo in cui è accampato l’esercito etrusco guidato da Tarconte (Haud procul hinc Tarcho et Tyrrheni tuta tenebant – castra locis, VIII, 602-603), “dove dovrebbe immaginarsi Tarquinia” (2).

Dopo che Enea e Tarconte hanno stipulato il patto di guerra, “la gente lidia s’imbarca, per ordine divino – affidandosi a un duce straniero” (classem conscendit iussis gens Lydia divum, externo commissa duci, X, 155-156). Il catalogo delle trenta navi (X, 163-214) ci offre la rassegna delle forze etrusche alleate dei Troiani. Massico guida mille arcieri di Chiusi e di Cosa; Abante (torvos Abas, X, 170) porta con sé seicento guerrieri di Populonia e trecento dell’Elba; Pisa, “città alfea per origine, – ma etrusca per suolo” (alpheae ab origine Pisae, urbs Etrusca solo, X, 179-180), fornisce mille uomini armati agli ordini dell’aruspice Asila (hominum divumque interpres Asilas, X, 175; Asture (pulcherrimus Astyr, X, 180) ha al suo seguito trecento uomini provenienti da Cere, dai campi del Mugnone, da Pirgo e da Gravisca (qui Caerete domo, qui sunt Minionis in arvis, et Pyrgi veteres intempestaeque Graviscae, X, 183-184); un contingente di Liguri è condotto da Cinira e da Cupavone (CinyraCupavo, X, 186); cinquecento armati sono guidati da Ocno, il quale, figlio dell’indovina Manto e del fiume etrusco, ha chiamato col nome materno la città da lui fondata, Mantova, che dalla stirpe etrusca deriva il proprio vigore (fatidicae Mantus et Tusci filius amnis, qui muros matrisque dedit tibi, Mantua, nomen, – (…) Tusco de sanguine vires, X, 199-203); infine, con un seguito non precisato, viene Auleste (gravis Aulestes, X, 207), che una leggenda vuole fondatore di Perugia (Serv. ad Aen. 10, 198), anche se Virgilio qui non ne riferisce la città di provenienza e altrove (XII, 290) lo dice semplicemente “re etrusco” (rex Tyrrhenus).

Perugia, dunque, non viene menzionata, così come non vengono menzionate importantissime città dell’Etruria quali Arezzo, Fiesole, Veio, Vetulonia, Volsinii, Volterra, Vulci, né Felsina o Spina. Non è menzionata nemmeno Tarquinia, nonostante la parte di grande rilievo assegnata al suo fondatore eponimo Tarconte, capo di tutti gli Etruschi. A spiegazione di ciò sono state ipotizzate varie ragioni (3), tra le quali il fatto che la spedizione degli alleati etruschi è essenzialmente marittima, sicché, mentre coinvolge località portuali minori quali Pirgo e Gravisca, deve per forza escludere le città dell’entroterra; oppure, che Virgilio ha trascelto le città etrusche di fondazione pelasgica; o che avrebbe intenzionalmente escluso quelle città che, come Veio, Tarquinia e Volsinii, ebbero poi un rapporto conflittuale con Roma. Fatto sta che l’Etruria di Virgilio, come ha osservato il Pallottino, “coincide soltanto approssimativamente con l’estensione dell’Etruria VII regione augustea compresa fra il Mar Tirreno, il Tevere e l’Appennino tosco-emiliano” (4).

Il Tevere infatti è ben presente in Virgilio come elemento geografico caratteristico dell’Etruria: il Tuscus Tiberis delle Georgiche (I, 499) nell’Eneide è Tuscus amnis (VIII, 472; XI, 316), Tyrrhenus Thybris (VII, 242), Tyrrhenum flumen (VII, 663), Lydius Thybris (II, 781-782). La forma usata nell’Eneide, Thybris, rimanda ad un re leggendario (etrusco per alcuni, albano per altri) che, secondo il racconto di Evandro, giunse nella Saturnia tellus prima degli Arcadi: “l’aspro Tevere (Thybris) dal corpo immane, – dal quale noi Itali in seguito il fiume col nome di Tevere (Thybrim) – chiamammo” (VIII, 329-331).

Per quanto riguarda i personaggi etruschi dell’Eneide, oltre a quelli che abbiamo già ricordati (Mezenzio, Tarconte, i duci del catalogo) deve essere citato il subdolo Arrunte, il quale, dopo avere atteso l’occasione propizia per colpire Camilla, uccide la regina e poi si affretta a nascondersi tra le file dei compagni (XI, 759-815). Il nome di Arrunte (Arruns, Aruns), tipicamente etrusco, richiama quello del figlio di Tarquinio il Superbo; e l’ultimo re di Roma, figura col lucumone Porsenna sullo scudo di Enea: “E Porsenna ordinava che l’espulso Tarquinio – accogliessero e premeva l’urbe con grande assedio: – gli Eneadi correvano alle armi in difesa della libertà” (VIII, 646-648). D’altronde l’anima di Tarquinio, insieme con quelle degli altri due re etruschi di Roma (Tarquinios reges, VI, 817), è già stata vista da Enea nella valle del Lete.

Vi sono poi personaggi del campo rutulo che recano nomi etruschi: Volcente (IX, 367 ss.), Tàrquito (X, 550), Tolumnio (XI, 429; XII, 258 ss.). Per quanto riguarda Turno, “esiste una discussione aperta circa la possibilità che la sua figura leggendaria possa in qualche modo ricollegarsi originariamente al mondo etrusco” (5).

Ci si è ovviamente domandato da quali motivi Virgilio sia stato indotto “a far d’Enea un etrusco e ad assegnare agli Etruschi tanta parte dell’impresa d’Enea” (6). Certo, fin da epoca remota gli Etruschi esercitarono sul Lazio la loro egemonia e Dionigi d’Alicarnasso (I, 29) ci informa che alla stessa Roma veniva attribuita un’origine etrusca. Ma nemmeno è da trascurare il fatto che Virgilio, oltre a recare un nomen gentilicium e un cognomen probabilmente etruschi, fosse originario di una città che dal sangue etrusco traeva il proprio vigore: Tusco de sanguine vires. “Ma quel che più conta, – è stato affermato – egli aveva anima etrusca; la quale si rivela in quella profonda religiosità che pervade il poema delle origini di Roma, onde tutti gli avvenimenti, in apparenza fortuiti, sono interpretati come segno e manifestazione della volontà degli dèi” (7).

1. Massimo Pallottino, voce Etruschi in Enciclopedia Virgiliana, cit., vol. II, p. 412).

2. Massimo Pallottino, voce Etruschi, cit., p. 413.

3. J. Gagé, Les Etrusques dans l’Enéide, “Mélanges d’Archéologie et d’Histoire de l’École Française de Rome” (Paris), 46, 1929, p. 123 ss.; B. Rehm, Das geographische Bild alten Italiens in Vergils Aeneis, Leipzig 1932, p. 10 ss.; G. Colonna, Virgilio, Cortona e la leggenda etrusca di Dardano, “Arc. Class.” 32, 1980, p. 159 ss.

4. Massimo Pallottino, voce Etruschi, cit., p. 414.

5. Massimo Pallottino, voce Etruschi, cit., p. 414.

6. Bruno Nardi, L’Etruria nell’Eneide, Il Basilisco, Genova 1981, p. 30.

7. Bruno Nardi, op. cit., p. 32.

Relazione presentata al Convegno “Confronto tra mondo etrusco e mondo tracio: storia, arte, archeologia” – Tarquinia, Sala Consiliare del Comune, sabato 10 ottobre 2009.

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